L’idea di uno spettacolo di musica popolare romana, e più in generale laziale, ha preso forma per la prima volta nelle intenzioni del coro Musicanova nel 2002. Tre anni dopo, eseguendone una versione ampliata e rivisitata al Concorso Polifonico Internazionale Guido d’Arezzo, il Musicanova fu il primo coro italiano a vincere nella categoria popolare. La prossima settimana, giovedì 13 giugno 2019, il coro Eos e il coro Musicanova riporteranno sul palco del Teatro Palladium di Garbatella quei personaggi e quelle sonorità che raccontano e fantasticano di una pittoresca Roma di metà ‘800. Per chi si fosse incuriosito e volesse già immergersi nella giusta atmosfera, abbiamo trovato la lettera scritta da uno dei tanti personaggi di queste vicende.

Roma, 8 Giugno 18..

Dear Edith,

Sono così felice per te! Ero certa che James non avrebbe deluso le aspettative che tutti noi, e soprattutto il tuo cuore, riponevamo in lui. Non immaginavo però quando si sarebbe fatto avanti, avendo egli dato prova di possedere una natura più riflessiva che precipitosa. Anche zia Elisabeth si rallegra della meravigliosa notizia e si congratula con il caro James a cui non avrebbe saputo augurare di meglio nella vita che sposare una qualsiasi delle sue nipoti. Partirò da Roma tra una settimana, farò una breve sosta a Londra e sarò a Westworth House ad inizio luglio, in tempo per il grande giorno. Spero non farai troppa fatica a riconoscere la tua sorellina, anche se io stessa stento ad abituarmi a questo sano colorito mediterraneo. La notizia del tuo fidanzamento non poteva giungere in un momento più appropriato, è stata infatti un agognato momento di gioia per un cuore bisognoso di conforto. Con questa affermazione non intendo affatto causarti preoccupazioni, si tratta infatti di quel tipo di afflizione e malinconia che si manifesta al termine di felicissimi eventi. Quali eventi? ti chiederai, dato lo scarno contenuto delle mie precedenti lettere. Devo confessarti di aver omesso alcuni fatti, ma ti assicuro di essere stata costretta dall’incapacità di trovare le parole giuste per descrivere ciò di cui ora ho una visione più chiara e completa. Solo ora infatti, con l’animo di chi sta per lasciare questa città e le sue vicende, provo l’istinto di parlarne, o meglio, di scriverne. Fin dai primi mesi dal mio arrivo ho percepito una Roma quasi divisa in due città: una antica, tutta aderente alle antiche consuetudini, clero, confraternite, congregazioni ecclesiastiche, canonicati, prebende, processioni, indulgenze; e una moderna, che attira stranieri e viaggiatori, fatta di lusso, caccia della volpe, corrieri, artisti, busti, ritratti, danze, concerti, una Roma appassionata del thè d’oriente e delle corse sui cavalli. Di quest’ultima avevo diretta esperienza mentre della prima avevo solo una vaga idea viziata dai giudizi inclementi degli amici ed ospiti, artisti ed intellettuali che hanno trovato negli appartamenti della zia Elisabeth un luogo d’elezione per i loro incontri. Di queste riunioni ti ho già parlato, come anche di tutti gli eventi mondani che non riuscivano a non risultarmi noiosi; fu però proprio in una di queste occasioni che la zia mi presentò un pittore francese, Hippolyte Fèvre, inviato per un anno di studi a Roma dall’Académie des Beaux-Arts, e con cui capii subito di avere in comune non solo una sconfinata passione per l’arte, ma anche un  genuino interesse per quell’altra città, quella al di fuori dei salotti e dei circoli intellettuali, fatta di strade popolate di donne e uomini tutti intenti nelle loro attività, immersi nelle loro tradizioni, accesi nei loro dolori e nei loro amori. Volevamo attingere a quella vitalità nascosta e sconosciuta ai più, volevamo smentire le parole di Madame de Staël, la quale di fronte alle numerose manifestazioni fisiche della morte a Roma – le catacombe, la via Appia, la piramide di Cestio, i sotterranei di San Pietro – rabbrividiva e aveva ella stessa perso la certezza di essere in vita. Hippolyte è un giovane sensibile ma determinato e fu così che ci recammo nelle piazze durante i mercati, all’Aracoeli durante le affollate celebrazioni liturgiche, negli innumerevoli paesini fuori Roma nei giorni di festa – non ci crederai, una di queste feste prevede che le vie di un intero paese vengano ricoperte da migliaia di petali di fiori disposti a comporre meravigliosi disegni! Ma soprattutto ci recammo nelle strade, che scoprimmo essere non solo un luogo di passaggio, ma scenario di danze, corteggiamenti, e preghiere – ad ogni angolo proliferano infatti edicole votive con splendide madonne e bambinelli che vegliano sulla popolazione ed offrono la possibilità di fermarsi per un momento di adorazione en passant. Avevamo trovato una fonte inebriante di ispirazione, io per nutrire la mia mente curiosa ed Hippolyte per nutrire la sua arte, unico oggetto della sua indivisa attenzione. A farci da guida in queste visite c’era un giovane scultore romano amico di Hippolyte, Lorenzo Vitti. Alto, bruno e piuttosto taciturno, Lorenzo non sembrava contagiato dal nostro entusiasmo, eppure ci accompagnava di buon grado e ci faceva da interprete con il suo inglese dal forte accento italiano. Dopo poco, imparai a riconoscere nel fondo dei suoi occhi scurissimi un guizzo di orgoglio misto ad eccitamento ogni qualvolta mostrassi interesse per quel suo popolo, per le usanze, i costumi o le vicende di uomini del passato e del presente. A differenza dei suoi modi, a tratti grezzi come la pietra che lavora, il suo sguardo era acuto e vibrante, e dopo poco tempo mi accorsi di ricercarlo sempre più spesso. Un giorno, mentre Hippolyte era intento a ritrarre la scena di alcuni fedeli e prelati radunati intorno ad una fontana – scena che pianificava di riportare su tela una volta in studio – io e Lorenzo ci ritrovammo in un angolo tranquillo, lontano dagli schiamazzi della festa, seduti l’uno accanto all’altra a leggere un libro con cui Lorenzo si era proposto di insegnarmi un po’ di italiano. Ma quel giorno, lontani dagli schiamazzi della festa, non andammo più avanti nella lettura. Come ti ho detto, tra una settimana partirò. Ieri ho salutato Lorenzo, siamo tornati a vedere ancora una volta la più stupefacente delle fontane di Roma, immensa, adagiata sul fianco di Palazzo Poli, in cui sembra che la natura, maestosa e divina, minacci di rompere e sollevare le fondamenta dell’intera città e di far sgorgare tanta acqua da allagare tutta Roma. Questa volta Lorenzo mi ha parlato di una superstizione per cui, gettando una moneta nella vasca, sarò un giorno destinata a tornare, e mi chiedo se durante questo mio viaggio io sia divenuta abbastanza sensibile a queste credenze da far sì che funzioni davvero. Nel frattempo mi consola sapere di avere con me alcuni dei disegni di Hippolyte, in cui potrò sempre ritrovare i volti ed i colori di questa gente, per rievocare le loro vicende ed immaginarne di altre. In uno dei disegni c’è anche Lorenzo, con quel suo sguardo serio e concentrato, te lo mostrerò.

A presto.

Ti abbraccio,

Lily